Riecheggia ancora

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Sadder still to watch it die
Than never to have known it
For you, the blind who once could see
The bell tolls for thee
NP

≪Racconta, sai, che ultimamente dorme poco. Si sveglia nel mezzo della notte, il mondo che si esprime solo frusciando o con remoti rintocchi metallici, e se ne rimane tra le lenzuola fino all’alba, gli occhi sbarrati, la vigilanza malata del consumatore di anfetamine. La mattina, poi, non riuscendo a combinare granché, cammina. Oh, se cammina. Percorre avanti e indietro l’argine dell’Egola (“le riv gosccc de l’Egolà”, scherza) e qualche volta tira dritto per La Serra o si inerpica verso Montebicchieri – il borgo fantasma omaggiato anni fa col fauvista Where’s the Werewolf? Chilometri e chilometri macinati col capo greve e le mani in tasca, i pantaloni di velluto beige da cui non si separa mai che strusciano sbrindellati per terra. E quell’idea, solo quella, fissa in testa. Come riacciuffarla quando l’hai perduta. Come resuscitarla quando è morta stecchita. Che strategie adottare, quali meccanismi mentali assecondare e se, non si sa bene come, possano svolgere un ruolo cruciale persino sottaciuti riti scaramantici – il carissimo amico Bertuccelli gli avrebbe spiegato per filo e per segno perché la superstizione attecchisce nelle menti degli umani e anche in che modo, con adeguati strumenti logico-statistici, la si possa sconfessare, negare, ridurre in polvere, ma il Bertuccelli non c’è più da un bel pezzo, volato giù nella valle in una notte delirante, ed è proprio da allora che – gatti e topi ballerini – il pensiero magico si fa largo sempre più prepotente nella sua testa semplice. Tuttavia, non equivocare: verissimo che si trova in condizioni pessime, che la grana scarseggia, che non sa che pesci prendere… ma lamentarsi gli piace poco. Non vuole teatralizzare. Le persone hanno affari ben più impellenti a cui badare, famiglie e bambini e bollette e carriere, ed evita di assillarle con petulanti frustrazioni da artistoide. La classica cosa che ti rode dentro, capisci? Notti insonni ma pure spaventose palpitazioni, emicranie lancinanti, un’ulcera che non si augura a nessuno… Assai restio e tutto quanto, sì sì, eppure quando ingolla un bicchiere di troppo il tema spunta fuori puntuale, un avvallamento abissale verso cui volente o nolente rotolano svelte tutte le parole. “Un casino spiegarsi” premette di solito. “Il linguaggio, alla fin fine, non serve proprio a un cazzo”. Abita dove sempre, nella sudicia soffitta in via di Giuncheto che da decenni è il suo laboratorio, la casa è il laboratorio e il laboratorio la vita, come nei film destrutturati che tanto imbarazzano gli alfieri delle prescrizioni narratologiche, quelli in cui si avverte una crescente patologica ibridazione tra il piano della realtà e quello, ineffabile, dei processi creativi. La soffitta è ampia, puzza di stantio ed è zeppa di centinaia di vecchie tele, ammucchiate sul cemento grezzo come spazzatura che non si ha voglia di portare in strada, si scorgono a malapena nella luce misera che scende farinosa dall’abbaino rivolto a nord, ritratti, paesaggi, un profilo stilizzato del Monte Serra colto da vicino, da un punto segreto tra Pontedera e Cascina, e poi pozze di pigmento secco, cavalletti abbattuti, stampe di Freud e Braque, pennelli, barattoli, bottiglie di birra. Decadenza, disperazione, resa – mille tentativi, altrettanti fallimenti. “Non sono più bono a una sega”, dice. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando i suoi lavori venivano acclamati sulle riviste di settore e venduti sia in Italia che all’estero, facendogli incassare discrete quantità di quattrini. I premi, i vernissage, la televisione, i discorsi di ringraziamento in cui sbagliava regolarmente i nomi delle varie associazioni organizzatrici. Un periodo felice che, racconta lui stesso in uno dei suoi aneddoti preferiti, prese il via, per un paradosso morale degno di Dostoevskij o Donna Tartt, grazie a una trasgressione, al verificarsi di un singolo atto illegittimo: quand’era già quarantenne, un pomeriggio di maggio, sul regionale Firenze–Pisa, attirato perlopiù dall’astrusa promessa del titolo, rubò un libro alla studentessa che gli russava sul sedile di fianco e se lo portò a casa. La lettura attenta di Disegnare con la parte destra del cervello, testo rivoluzionario scritto da un’insegnante d’arte americana al termine degli anni ’70, assai influente all’interno della comunità internazionale dei Veri Pittori, ebbe su di lui un effetto piuttosto dirompente. Squadernandogli sia una nuova forma dell’esperienza del guardare che una nuova tecnica (le due cose, sappilo, vanno di pari passo), quel libro gli consentì di superare una profonda crisi artistica, equiparabile a quella attuale, che lo fiaccava da lungo tempo. (“La realtà, tutta assieme” ricorda. “I giorni pieni, spumeggianti, vivi”). Prese infatti a svegliarsi presto la mattina, d’un tratto, traboccante di energia, e a tenere in mano il pennello fino a notte inoltrata, indefesso, sette giorni su sette, per mesi, nonostante il mal di schiena e la cervicalgia, accantonando dall’oggi al domani tutto l’accessorio, il cibo, l’igiene, la compagnia degli amici. Adesso doveva solo dipingere, né più né meno. Adesso sapeva – fandonie che ci raccontiamo così tante volte che finiamo per crederci davvero – che dipingere era l’unica cosa che sapesse fare, ciò per cui l’avevano messo al mondo. E i dipinti che realizzava, devo proprio dirtelo?, devo?, i dipinti erano belli, coraggiosi e grondanti di significato. Piacevano a tutti. Tutti lo lodavano, lo blandivano, le interviste fioccavano, si moltiplicavano le richieste di lavori su commissione. Non poteva chiedere di più. Ma io, che c’ero già passato, gli feci capire che non sarebbe durato per sempre. Non dura mai per sempre. La spinta inebriante di quel vento portentoso prima o poi viene a mancare. Un giorno torna, luttuoso, l’orrore della bonaccia. Scompare la fiducia, un giorno, scompare la fede, quella vista speciale. Il reale di nuovo irriferibile – ogni pennellata inesatta, ogni tratto misero o, al contrario, atrocemente pretenzioso. E non puoi farci niente. Cerchi stimoli (inneschi) dappertutto e leggi romanzi, viaggi, richiami vecchie amanti, frequenti le mostre, il teatro, cammini meditabondo per ore e ore. Ma, per quanto ti impegni, ti arrovelli, la risposta non la trovi. Come si riavviano quegli ingranaggi mangiucchiati dalla ruggine? Come si rimette in moto il processo? “Non sono più bono a una sega”, ripete spesso. Non combina niente da così tanto tempo che si vergogna persino quando lo definiscono pittore. Scova sempre velature ironiche nel sostantivo, nel modo meschino in cui lo pronunciano. Replica, allora. Offende. Manda sonoramente a fanculo. “È solo un’ossessione” blatera da brillo rimasticando i bei tempi andati. “Una brutta ossessione del cazzo”. Qualcosa che ti tartassa emarginandoti dalla sana congrega dei normali e che poi, quando se ne va, “ti manca come ti mancherebbe l’aria. Oppure l’eroina”. Penso spesso a lui, sai, alla sua situazione. Penso al concetto posticcio di dovere – una costruzione sociale particolarmente perniciosa. Penso alla ricerca insistita, e disperata, del segno assoluto, quel segno che stia perfettamente per la verità più pura. Insomma, dai, qualcosa del genere. Credo dipenda da qualcosa del genere. E che sia anche, collateralmente, una mera questione di voler – o meno – dimostrare, a un pubblico senza faccia oppure a una persona specifica, di saper fare una differenza. Credo sia l’affermazione di un potere, la sua deprivazione. Credo sia voler dimenticare la morte. “Un casino farsi intendere”, dice alla fine dei suoi sproloqui sbronzi. “Soprattutto se chi ascolta è un buco di culo che non ha mai tenuto un pennello in mano”. Penso ai limiti insormontabili del linguaggio – cogliere proprio nell’esatto momento in cui si parla lo iato deprimente tra il pensato e il detto –, all’incomunicabilità fatale, alla metafisica delle nostre inestirpabili solitudini. “Non sono più bono a una sega”, biascica fino allo sfinimento, quasi a volersene convincere lui stesso, aderire esattamente alle parole e poi mollare tutto, magari, e cominciare una vita vera. Dorme poco, ultimamente. Davvero poco. Si sveglia nel mezzo della notte, il mondo che si esprime solo frusciando o con remoti rintocchi metallici, e se ne rimane a letto immobile fino all’alba≫.

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