Su certe cose si può scherzare solo fino a un certo punto

[…] Un viaggio, ancora senza testimoni. Uno può inventarsi di tutto. San Miniato-Andalusia in pieno inverno, giusto a ridosso della fine del mondo. Un aereo economico, scovato per caso, sondando vie di fuga in una notte insonne. L’atterraggio a Siviglia sotto la pioggia, la pista mesta e lucida che riflette l’illuminazione aeroportuale. La penuria di turisti, K-way e ombrelli tascabili. La noia delle carrozze di cavalli del centro, le zingare che fanno l’elemosina, i tori ammazzati che incombono sui tavoli delle trattorie semivuote, sguardi dritti e fissi e stolidi. Tortillas, gazpacho, liquori rossi, dessert di crema bianca che tendi a riprovare. Avventori placidi spesso solitari che mangiano con l’indice sul telefonino. Odore infantile di pane caldo dalle cucine. Menù poliglotti. Cameriere che schioccano avanti e indietro sul pavimento di legno. Ero là. Fissai lemmi spagnoli. Spaventai gatti. Portai a termine sessioni di lavoro svogliate nei bar con Wi-Fi e vista sul canale e sulle palme strane. Camminai chilometri. Visitai la cattedrale, l’Alcázar, la prolissità di Piazza di Spagna. Camminai di notte, in particolare, alla ricerca di niente e nessuno, bevendo un bicchiere qua e là, masticando tranci di pizza freddi in intimi esercizi con la serranda abbassata. Tolsi le tende qualche giorno dopo. Scelsi una vettura giapponese, all’autonoleggio, mi passò le chiavi un ragazzo dalla mascella sovradimensionata avvertendomi che l’autoradio non funzionava. Con calma, su strade secondarie, scesi verso sud. Non avevo scadenze. Una puntata dentro un paesino in stile western location di quantità di film. Una mongolfiera a spicchi panna e magenta immobile nel cielo cupo (copertina di un ipotetico album). Una sosta di un pomeriggio soltanto a Cadice, i cui stabilimenti balneari spogliati di tutto irradiano lo stesso un’energia, una radioattività, rimandano a decenni addietro, a euforie postbelliche, connubi cemento-sabbia che d’estate – come vederlo – funzionano ancora alla grande. Una lunga dormita in un albergo di pareti rosa a Conil de la Frontera. Un succo di frutta rancido nel frigobar. La donna biondo platino alla reception già con la mascherina e la sensazione di essere l’unico cliente da settimane, una premonizione collettiva. Nessuno in giro, nessuno – il vento, l’ira del mare e niente più. E poi ancora più nel profondo, verso l’Africa. L’attraversamento del parco naturale, le mucche, i cavalli bradi, le pale eoliche che ruotano all’impazzata. A cosa stai pensando? Tarifa, l’obiettivo. Il profilo nebuloso dell’altro continente oltre la processione di navi commerciali. Un mare a destra e un altro a sinistra. Il centro fitto di vie e di locali chiusi e di mille varianti di salmastro. Le spiagge sull’oceano, primordiali, esangui, sterminate. La furia delle acque spumeggianti e i surfisti punti neri che fanno capolino tra le onde. Le strade battute solo da saltuari camper targati Germania e Olanda. Essere sulla linea di confine, al limitare dell’ordine. Guardare ad ovest, dove il giorno finisce, da un bar con affaccio sul mare scosso da folate furibonde. Ordinare una birra. Una seconda. Avere un’idea grandiosa, realmente grandiosa, e poi smarrirla per sempre. […]

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