Hauntologie del bacino remiero II

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[…] Passate le ore, la vista si fa speciale. Rubo dettagli crescenti all’oscurità oltre la bolla. Opalescenze effimere, venature blu. L’inspessirsi dei contorni. C’è un molo con un paio di barche ormeggiate. C’è una sfera – un pallone – sulla riva di fronte a me, freme impercettibile nell’abbraccio delle piante lacustri. Germogliano un po’ a sorpresa, dal suolo disperato, fantasie brevi e lineari. Le barche di famiglie che solcano lo specchio una domenica pomeriggio di aprile, i visi espansi dei bambini, quelli dei genitori che scrutano i bambini confidando nella memorabilità a lungo termine della messa in scena. I palloni spediti nell’acqua durante sfiancanti sfide di calcio tra padri trentenni sul prato presso la struttura della Canottieri San Miniato (posso ipotizzare competizioni serrate, body tecnici, cappellini con visiera, il frullare effervescente dei remi). A corollario, panini alla mortadella addentati sulle panche di legno nell’indaco del crepuscolo, aneddoti biascicati, bottiglie verticali che stillano l’ultima goccia di birra nelle bocche stanche. Foto, naturalmente, infinità di foto – riaffrontate decenni dopo sapranno suscitare, però, solo una sottospecie di dolore. Anziani che passeggiano. Frisbee sospesi controsole. Dibattersi sconcio di carpe perforate. E poi il lago come soggetto, il mistero artificiale di una pozza a forma di luccio, il lago che dà e che toglie – affoga i figli e fa strillare le madri, custodisce cormorani e cicogne, droghe, tresche, strazia tatticamente le terre limitrofe barattandole per la salvezza della nobile piana pisana. Il lago magnetico e chiuso che non emana, come stereotipo richiederebbe, nessuna nebbiolina mistica. Soppressa sul nascere l’ambiguità, la minima vaghezza – la fredda aria di dicembre sfoggia il nitore impareggiabile di un’ottima idea. Nera la barca prossima alla riva. L’altra, più grande, verte sul paglierino. Il pallone è distintamente sgonfio e di un arancio immalinconito dalla penuria di luce. Tengo le gambe distese con i piedi tra i pedali, la schiena aderente al sedile. Il collo se ne sta dritto e consegna il capo alla convessità del poggiatesta. A cosa stai pensando? Le orecchie frusciano di liquido e teoria. Gli occhi restano vigili, tersi – non ho sonno. Comincia a far tardi ma non ho sonno. Nell’andirivieni monotono del respiro perlustro il buio che mi si srotola davanti, vagamente motivato, quasi avessi colto l’ingranare di un processo, avessi capito che dal recesso può eruttare da un momento all’altro la totalità del possibile – Nessie, i dinosauri, Jurassic Park, l’umanità annientata. I sassi bianchi sotto le paratie a destra, disciplina e angoli retti. La moltiplicazione dei moli dall’altra parte. Una bandiera appassita in cima a un palo. La superficie delle acque divisa in due fette più o meno simmetriche dal taglio della luna piena. Una vignetta antica e lisa dalle intemperie, slovena o austriaca, chi ricorda più. L’usura della gomma del volante. E il respiro, ancora. Lo stupefacente respiro. Tiepido e rauco di una raucedine filamentosa e appiccicaticcia. Isolarlo significa realizzare la precarietà sostanziale di un oggetto biologico, la sua continua scommessa contro l’improbabile. Sono qui. Nonostante tutto sono qui. A intervalli regolari abbasso di cinque centimetri il finestrino – il brulicare sommesso della terra, ingordo macinare energia per energia – mirando a un equilibrio impossibile tra condensa e clima interno sopportabile. Nel premere l’interruttore sullo sportello tocco l’indolenza del vetro che scende, una ribellione, un progresso fallito. Talvolta tossisco brutale per spezzare un flusso, teatralizzando l’atto a uso e consumo di un pubblico assente – un pizzicore in fondo alla gola è un cancro immondo da espellere all’istante con tutta la forza del corpo. […]

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