Slow Learner – Tuber Magnatum (2023, Sony Music)

DALL·E 2023-12-04 10.47.04 - copertina di the age of white truffle da parte della band rock chiamata midnight serenade

Voto: 7,5
Genere: art rock, progressive metal, folk

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Attesa lunga, frustrante. Anni e anni di gavetta. Sessioni di prove in scantinati umidicci e garage dall’acustica deprimente. Registrazioni amatoriali. Concertini qua e là per il centro Toscana. Bootleg pubblicati su Myspace e Youtube e Soundcloud – gemme semisconosciute come Unplugged at Decris o Live at The Alchemist 2009. Lo status ineluttabile di band di culto, sotterranea. Il fascino della clandestinità, dei samizdat, del passaparola tra appassionati. Quella roba lì, insomma. Ci siamo capiti. Bravi, bravissimi, addirittura eccezionali. Ma per pochi. Destinati a rimanere tali. A non fare breccia nel grande pubblico. A non sfondare mai.

Poi una major si accorge di loro. Ascolta l’ultimo demo e lo apprezza. Propone di lavorarci sopra, di smussarlo, di trasformarlo in album. Li mette sotto contratto. Succede un annetto fa. E tutto cambia, per i trentenni samminiatesi Slow Learner. Da un giorno all’altro.

Tuber magnatum, prodotto e mixato da Ted Imbruglia (Ministry, Creed, Lankum) e registrato presso i Trident Studios di Londra, è un lavoro lungo e sfaccettato. Sviluppa tutte le migliori idee degli anni precedenti, non presenta fasi di stanca ed è tecnicamente superbo – fatto che se si conosce un minimo la meticolosità e la perizia strumentale degli Slow Learner non dovrebbe sorprendere. A livello di testi, non li si accusi di scarsa originalità, la band ha messo in piedi una sorta di concept sul tema del tartufo bianco, il pregiato fungo ipogeo diffuso nelle terre attorno a San Miniato (PI).

Ad aprire le danze ci pensa Il sentiero, brano dall’atmosfera bucolica – chitarre acustiche, xilofono – che si trasforma in un mid-tempo tutto sommato elementare ma di buon impatto. Per suoni e riff può rinviare alla produzione dei Savatage di Edge of thorns, volendo, ma la sezione ritmica Taddei-Pertici sciorina raffinatezze impensabili per l’ensemble statunitense. Il ritornello, di un’amarezza proustiana, implora: Non tornerò più / Non troverò la cura / Ti prego ti prego / Conserva intatta quella radura. Se Il sentiero è una discreta opener ma nulla più, con Albeggiare siamo invece già alle prese con uno degli zenit dell’intero album. In dieci minuti succede qualsiasi cosa. Chitarre nu-metal si avvicendano con arpeggi acustici di estrema pulizia, fanno capolino cori femminili, compaiono armonizzazioni, passaggi di flauto, assoli elettrici, acuti ultrasonici e intermezzi di solo narrato. Si tratta di una canzone destrutturata che parla di una coppia di fratelli che trascorre un’intera notte a giocare a un videogame. Scopo del gioco: perlustrare un bosco immenso evitando i pericoli (cinghiali, lupi, serpenti) per collezionare più tartufi bianchi possibile (bisogna scavare a mani nude laddove si crede, in base a certi indizi, possa trovarsene uno). Il terzo pezzo si chiama Avvallamenti e flirta con la similitudine tra la ricerca del tartufo e l’umana ricerca della felicità. L’impalcatura appare più classica rispetto ad Albeggiare, ma gli Slow Learner rendono l’insieme lo stesso fresco e accattivante e seminano preziosismi a profusione, svelti ricami di chitarra, tempi dispari, effetti elettronici di gusto sopraffino. Ma è soprattutto Julio Turrio a fare la differenza, sciorinando l’ampio repertorio in suo possesso: il sentimento, la teatralità, l’invidiabile estensione alla John De Leo (Avanti o indietro / avanti o indietro / in trappola nel bosco tetro recita un refrain perfetto per esser cantato dal vivo). Dopo un trittico tanto sismico piomba, puntualissima, la ballata. Non poteva essere altrimenti. Comete come te è un lento acustico che parla di una storia d’amore cominciata con una cena romantica a base di tartufo bianco. Rammenta mille cose, i Pooh di Parsifal, gli Yes, Nick Drake, i Pearl Jam e così via, eppure nei suoi tre minuti e mezzo denota ugualmente una personalità spiccata. Barzilli che si cimenta in arpeggi zeppeliniani, la voce di Turrio calda e avvolgente, Lucia Taddei raffinatissima al basso fretless, Nico Pertici leggero come una piuma sul ride, il fratello Franco al piano perfetto nel colorare l’atmosfera con manciate di note – brano minimale e orecchiabile, dalle enormi potenzialità radiofoniche. Balto è una traccia progressive metal alla Fates Warning incentrata sulla leggenda tutta samminiatese di un lagotto romagnolo vissuto decenni fa eccezionale nel fiutare tartufi, mentre Le stelle del Messico narra di nostalgia, di rimembranza, di un’infanzia perduta caratterizzata da piatti e piatti di tagliatelle al tartufo della nonna (Nell’insondabile me / laddove non esisto più / poter tornare là / solo un minuto / poter riassaggiare quel tartufo). La canzone si dimostra un vero e proprio tour de force, una mastodontica sinfonia fitta di cambi di umore e di tempo, ed è divisa in due parti ben distinte dai tre minuti solisti di un Barzilli smagliante, prima evocativo e struggente e poi frenetico sulla sei corde. Il disco – disponibile su tutte le piattaforme streaming – si chiude con Odissea, una suite in stile Marillion della durata di ventisette minuti (!) che meriterebbe una recensione a se stante. Un capolavoro, sia detto fuori dai denti. Qualcosa che diverrà punto di riferimento per chiunque vorrà, negli anni a seguire, cimentarsi col genere. Il testo segue la camminata di uomo a partire dalle pendici di San Miniato (zona “Gargozzi”) fino al vecchio ospedale, dall’altra parte della città, in una grigia domenica di novembre, durante la Mostra Mercato del Tartufo Bianco. L’uomo, debole e affamato, deve destreggiarsi tra i vari ristoranti, tra le bancarelle, tra le offerte, gli assaggi, i crostini, i grissini, le bruschette, i piatti fumanti, i tagliolini, i ravioli, i paccheri, i profumi inebrianti di tartufo, tirando dritto fino alla meta. Non può mangiare nulla. Turrio – autore di tutte le lyrics – è qui profondamente allusivo, e la passeggiata dell’uomo assume fin da subito un’indefinita sfumatura metaforica, esistenziale. Il pezzo, che a tratti esprime perfino un animo jazz, si conclude con un inquieto tappeto di tastiere che accompagna il protagonista, dopo impensabili peripezie, all’interno della struttura ospedaliera dove verrà misteriosamente ricoverato.

Con Tuber magnatum gli Slow Learner hanno osato, e hanno avuto ragione. Tutta quest’ambizione, quest’ossessione per il dettaglio, questa voglia di rompere le regole e volare altissimi, tutto ciò non può lasciare indifferenti. Provateci. Che altro possiamo dirvi. Provateci. E se non vi piace al primo o al secondo ascolto, riprovateci ancora. Siamo certi che non ve ne pentirete.

Durata 71:55
1-Il sentiero
2-Albeggiare
3-Avvallamenti
4-Comete come te
5-Balto
6-Le stelle del Messico
7-Odissea

Formazione:
Mario Barzilli – chitarra
Lucia Taddei – basso
Nico Pertici – batteria
Franco Pertici – tastiera
Julio Turrio – voce e flauto

Farro soffiato all’Eurospin

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Il farro soffiato, con cui negli ultimi tempi faccio tassativamente colazione, è meglio all’Eurospin o alla Pam? Perché dovrei andare alla Pam se quello dell’Eurospin senza miele mi piace di più ed è meno calorico e pure più a buon mercato? Se devo scendere giù a San Miniato Basso, e a quanto pare devo, nel caso in cui voglia davvero comprare dell’altro farro soffiato per le mie colazioni sane e leggere, mi chiedo, posso farlo in tuta o devo per forza mettermi un laborioso paio di jeans? Voglio davvero abbottonarmi dei jeans? Sentire quel gelo tremendo sulla pelle? Chi una volta sostenne che non si dovrebbe mai uscire con la tuta? Che è fuori luogo, inopportuno? Che chi si fa vedere in giro con la tuta – a meno che ovviamente non stia praticando uno sport – dovrebbe provare una qualche vergogna? Parlò letteralmente di vergogna o sto un filo esagerando? Sono io che drammatizzo? Perché questo discorso, sentito di sfuggita a una cena alcolica anni addietro, continua a tormentare il mio quotidiano? E se me ne fregassi e propendessi per l’opzione-tuta e durante il tragitto per l’Eurospin (dunque vado lì?) la macchina si fermasse di colpo? Se succedesse l’indicibile? Se dovessi, che so, sostituire una gomma? Quanto pagai la tuta della Nike? Se la sporcassi e fossi costretto a buttarla via? Perché dovrei indossarla se sussiste un rischio del genere, pur minimo? E se, giusto per ipotesi, per pura speculazione, non possedessi invece alcuna tuta firmata? Se fosse solo una mia fantasia, io e una tuta della Nike in accogliente cotone, sfoggiarla in giro (sempre che sia qualcosa da sfoggiare), poterla teoricamente indossare in due balletti per andare a fare la spesa dove mi pare e piace? Se solo mi dilettassi con l’idea allo scopo di poter infine contraddire – in maniera assai sottile – la persona-spara-sentenze di quella cena lontana? Ma il fatto di indossare non una tuta qualsiasi ma una tuta prestigiosa, di marca, non starebbe a indicare che la sto contraddicendo solo a metà? Che incarno una sottospecie di vigliacco? Perché sono ossessionato dalle macchine che si fermano e dalla sporcizia che ne deriva? Perché rimettere in sesto la macchina in avaria a bordo strada per quanto mi riguarda significa dover necessariamente rovinare la tuta della Nike? Non esistono alternative? Non posso usare uno straccio e stare attento? Sono folle se sostengo che la tizia della cena potrebbe aver avuto – indirettamente – un po’ di ragione? Aveva forse doti da sensitiva e prefigurava che potessero insorgere problemi di siffatta natura durante i tragitti? Magari era a conoscenza del fatto che controllo pochissimo le gomme dell’auto e che non le cambio quanto dovrei? Che prendo in pieno tutte le buche del mondo? Dovrei sentirmi in colpa per essere così negligente nei confronti del mio unico mezzo di trasporto? Ha senso ciò che sto supponendo riguardo le doti da sensitiva della tizia? Il discorso a cena non verteva su questioni di pubblico pudore, tralasciando integralmente quelle relative al valore economico del vestiario? O forse intendeva che bisogna vergognarsi di fare la spesa con la tuta sporca? Se così fosse, a voler essere puntigliosi, lo stesso ragionamento non potrebbe valere per i jeans o per ogni altro capo costoso? Non potrei sporcare qualsiasi cosa, nell’aggiustare una macchina? Sto davvero per indossare una tuta, nonostante tutto? Era una donna che me lo disse? Oppure un uomo attentissimo a dettagli del genere? Conosco sul serio uomini attentissimi a cosa indossano gli altri uomini? E se, invece, non avessi mai sentito nessuno sostenere quel discorso? Se fosse un falso? Se mi piacesse immaginare che qualcuno in passato abbia espresso un parere negativo sulla mia recente e cocciuta volontà di tuta, ammesso che sia cocciuta, solo per il gusto di autosabotarmi? Se la psicoanalisi avesse almeno un minimo di senso? Se entrassi all’Eurospin correndo, la butto lì, starei facendo dello sport e la tuta sarebbe giustificata? Se mi aggirassi tra le corsie mezzo sudato prendendo al volo pane e pasta e farro soffiato la tuta sarebbe giustificata? Anche se sporca? E se, vedendomi in tuta, la cassiera interessante dell’Eurospin – accenno di occhiaie, mai un sorriso – mi giudicasse sciatto, un uomo disgustosamente sciatto? Se vedere un uomo disgustosamente sciatto le rovinasse in qualche misura la giornata? Se tale visione contribuisse a farla rincasare di cattivo umore e quella sera, di conseguenza, litigasse col fidanzato? Per me sarebbe un vantaggio oppure no? Sarà eterosessuale, lei? Avrà un fidanzato? Dando per scontato che ce l’abbia, cosa dovrei pensare se nel giro di un mese finisse per lasciarlo anche a causa di quella litigata? Quanto sarebbe curioso se detestasse non tutte le tute ma solamente quelle firmate Nike? Se avesse frequentato in passato persone con tute della Nike che l’hanno ferita e da allora non potesse più sopportarle? Ma esiste una cassiera munita di occhiaie all’Eurospin, ora che ci penso? Che l’abbia notata alla Pam? Oppure alla Coop? Qual è il motivo per cui i supermercati a San Miniato Basso sono tutti così vicini tra loro? Vogliono che li confondiamo? A che scopo? E se invece non fosse una cassiera ma un cassiere e io fossi omosessuale e non volessi accettarlo? Se stessi raccontando tutto ciò per celare la mia omosessualità? Ed è vero che un collega della cassiera (mettiamo) dell’Eurospin mi ha rivelato il suo (di lei) nome e mi ha dato il suo (di lei) numero oppure in questo preciso momento me lo sto inventando per autoconvincermi di avere (con lei) una minima possibilità? Ha senso quel che ho appena scritto? Che poi, anche avessi il numero, e ne dubito, visto che non conosco nessun impiegato all’Eurospin (né alla Pam o alla Coop), troverei il coraggio di chiamarla? E se – azzardo – fossi indeciso tra Pam e Eurospin non tanto perché nella prima vendono farro soffiato migliore (falso) ma perché la cassiera su cui vorrei far colpo – presentandomi senza tuta – lavora in effetti alla Pam? Mi meriterei di uscire con la cassiera dell’Eurospin, o della Pam, insomma, con quella cassiera? Sarebbe un tipo giusto per me? Cosa penserebbe di un cliente, magari privo di tuta, che però appoggia sul nastro trasportatore tre o quattro tristi sacchetti di farro soffiato per volta? Ci sarà stato qualcuno nelle sue cene passate che ha espresso un’opinione forte e negativa a proposito degli uomini che comprano il farro soffiato? E se invece, perversamente, adesso volessi andare all’Eurospin (o alla Pam) in tuta proprio per fare brutta impressione sulla cassiera con le occhiaie (vista da lontano) troncando sul nascere ogni mia velleità e speranza? Così facendo non continuerei a supportare a distanza di anni e anni i convincimenti di quella tizia – al 70% donna, sì – della cena alcolica? Che tipo di speranza stavo coltivando, in fin dei conti? È giusto coltivare una speranza? Non si coltivano le piante, solo le piante? Perché è tutto segno? Sotto quante tonnellate di linguaggio si nasconde la realtà? Inoltre, siamo sinceri, mi piace davvero così tanto il farro soffiato? Sicuro che sia così leggero e salutare? Non dovevo parlare esclusivamente di farro soffiato e di come scricchiola nel latte caldo nelle mattine tiepide di primavera, se ho premesso che mi piace? Come mi sono infilato nel discorso sulle tute? Perché mi sono inventato il personaggio della cassiera? Me lo sono inventato? E se un giorno l’ex fidanzato di questa cassiera liminale mi incontrasse e fosse gentile con me, che so, alle poste, in un bar, in fila all’Eurospin, ignorando di esser diventato single e di aver sofferto come un cane anche per colpa mia? Come dovrei sentirmi? Non è assurdo, visto che io non avrò mai modo di conoscerne l’identità e che la cassiera potrebbe non esistere e lui uguale? E la sofferenza – i cani soffrono più di noi? – sarebbe giustificata oppure no, dal momento che sarebbe stato mollato da una tipa (inesistente?) rincasata una sera dal lavoro di pessimo umore solo per aver notato un cliente in tuta? Non dovrebbe al contrario sentirsi sollevato, lui, per il fatto di non frequentare più una simile cretina? Non dovrebbe stringermi la mano, pagarmi da bere, comprarmi una bella tuta della Nike, nel caso remoto in cui mi incontrasse? E non è un’assurdità anche questa, se lui – ammesso esista – in realtà non mi conosce e io non mi sono ancora presentato in tuta sul posto di lavoro della sua fidanzata immaginaria e se dunque non posso aver dato alcun concreto contributo alla loro separazione? Perché vorrei fare colpo o non vorrei fare colpo su una che – ammesso esista – potrebbe dimostrarsi tanto cretina? Ne ho bisogno, mi chiedo? Ho bisogno di comprare farro soffiato proprio adesso? Di quello senza miele? Perché sto per uscire e nell’armadio non trovo la tuta della Nike? Perché rovisto dappertutto e non la trovo? Se, come dovrei aver accennato sopra, non solo non possedessi una tuta della Nike ma proprio alcun tipo di tuta? Cosa significherebbe? Se non facessi sport da quando mi sono rotto il legamento crociato sciando (anche se non ho mai sciato in vita mia) e le avessi buttate tutte anni addietro? Se fossi un’altra persona, una di quelle frettolose che non fanno mai colazione? Non è vergognoso che una persona non faccia mai colazione? E se adesso, che assurdità, mi trovassi alla cassa dell’Eurospin con addosso i miei soliti freddissimi ma adeguati jeans? Se appoggiassi sul nastro trasportatore del farro soffiato – che credo di odiare – solo per permettere alla cassiera con le occhiaie di poter sfidare quell’opinione forte su uomini e farro che in teoria avrebbe sentito tanto tempo prima? Se puntassi a farla ricredere, a farle pensare Madonna che sciocchezza? Se usassi il farro soffiato per modificarle di poco poco il cervello? E se sorridesse, proprio ora? Se fosse qui davanti a me e avesse capito tutto e infine sorridesse?

Hauntologie del bacino remiero II

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[…] Passate le ore, la vista si fa speciale. Rubo dettagli crescenti all’oscurità oltre la bolla. Opalescenze effimere, venature blu. L’inspessirsi dei contorni. C’è un molo con un paio di barche ormeggiate. C’è una sfera – un pallone – sulla riva di fronte a me, freme impercettibile nell’abbraccio delle piante lacustri. Germogliano un po’ a sorpresa, dal suolo disperato, fantasie brevi e lineari. Le barche di famiglie che solcano lo specchio una domenica pomeriggio di aprile, i visi espansi dei bambini, quelli dei genitori che scrutano i bambini confidando nella memorabilità a lungo termine della messa in scena. I palloni spediti nell’acqua durante sfiancanti sfide di calcio tra padri trentenni sul prato presso la struttura della Canottieri San Miniato (posso ipotizzare competizioni serrate, body tecnici, cappellini con visiera, il frullare effervescente dei remi). A corollario, panini alla mortadella addentati sulle panche di legno nell’indaco del crepuscolo, aneddoti biascicati, bottiglie verticali che stillano l’ultima goccia di birra nelle bocche stanche. Foto, naturalmente, infinità di foto – riaffrontate decenni dopo sapranno suscitare, però, solo una sottospecie di dolore. Anziani che passeggiano. Frisbee sospesi controsole. Dibattersi sconcio di carpe perforate. E poi il lago come soggetto, il mistero artificiale di una pozza a forma di luccio, il lago che dà e che toglie – affoga i figli e fa strillare le madri, custodisce cormorani e cicogne, droghe, tresche, strazia tatticamente le terre limitrofe barattandole per la salvezza della nobile piana pisana. Il lago magnetico e chiuso che non emana, come stereotipo richiederebbe, nessuna nebbiolina mistica. Soppressa sul nascere l’ambiguità, la minima vaghezza – la fredda aria di dicembre sfoggia il nitore impareggiabile di un’ottima idea. Nera la barca prossima alla riva. L’altra, più grande, verte sul paglierino. Il pallone è distintamente sgonfio e di un arancio immalinconito dalla penuria di luce. Tengo le gambe distese con i piedi tra i pedali, la schiena aderente al sedile. Il collo se ne sta dritto e consegna il capo alla convessità del poggiatesta. A cosa stai pensando? Le orecchie frusciano di liquido e teoria. Gli occhi restano vigili, tersi – non ho sonno. Comincia a far tardi ma non ho sonno. Nell’andirivieni monotono del respiro perlustro il buio che mi si srotola davanti, vagamente motivato, quasi avessi colto l’ingranare di un processo, avessi capito che dal recesso può eruttare da un momento all’altro la totalità del possibile – Nessie, i dinosauri, Jurassic Park, l’umanità annientata. I sassi bianchi sotto le paratie a destra, disciplina e angoli retti. La moltiplicazione dei moli dall’altra parte. Una bandiera appassita in cima a un palo. La superficie delle acque divisa in due fette più o meno simmetriche dal taglio della luna piena. Una vignetta antica e lisa dalle intemperie, slovena o austriaca, chi ricorda più. L’usura della gomma del volante. E il respiro, ancora. Lo stupefacente respiro. Tiepido e rauco di una raucedine filamentosa e appiccicaticcia. Isolarlo significa realizzare la precarietà sostanziale di un oggetto biologico, la sua continua scommessa contro l’improbabile. Sono qui. Nonostante tutto sono qui. A intervalli regolari abbasso di cinque centimetri il finestrino – il brulicare sommesso della terra, ingordo macinare energia per energia – mirando a un equilibrio impossibile tra condensa e clima interno sopportabile. Nel premere l’interruttore sullo sportello tocco l’indolenza del vetro che scende, una ribellione, un progresso fallito. Talvolta tossisco brutale per spezzare un flusso, teatralizzando l’atto a uso e consumo di un pubblico assente – un pizzicore in fondo alla gola è un cancro immondo da espellere all’istante con tutta la forza del corpo. […]

Su certe cose si può scherzare solo fino a un certo punto

[…] Un viaggio, ancora senza testimoni. Uno può inventarsi di tutto. San Miniato-Andalusia in pieno inverno, giusto a ridosso della fine del mondo. Un aereo economico, scovato per caso, sondando vie di fuga in una notte insonne. L’atterraggio a Siviglia sotto la pioggia, la pista mesta e lucida che riflette l’illuminazione aeroportuale. La penuria di turisti, K-way e ombrelli tascabili. La noia delle carrozze di cavalli del centro, le zingare che fanno l’elemosina, i tori ammazzati che incombono sui tavoli delle trattorie semivuote, sguardi dritti e fissi e stolidi. Tortillas, gazpacho, liquori rossi, dessert di crema bianca che tendi a riprovare. Avventori placidi spesso solitari che mangiano con l’indice sul telefonino. Odore infantile di pane caldo dalle cucine. Menù poliglotti. Cameriere che schioccano avanti e indietro sul pavimento di legno. Ero là. Fissai lemmi spagnoli. Spaventai gatti. Portai a termine sessioni di lavoro svogliate nei bar con Wi-Fi e vista sul canale e sulle palme strane. Camminai chilometri. Visitai la cattedrale, l’Alcázar, la prolissità di Piazza di Spagna. Camminai di notte, in particolare, alla ricerca di niente e nessuno, bevendo un bicchiere qua e là, masticando tranci di pizza freddi in intimi esercizi con la serranda abbassata. Tolsi le tende qualche giorno dopo. Scelsi una vettura giapponese, all’autonoleggio, mi passò le chiavi un ragazzo dalla mascella sovradimensionata avvertendomi che l’autoradio non funzionava. Con calma, su strade secondarie, scesi verso sud. Non avevo scadenze. Una puntata dentro un paesino in stile western location di quantità di film. Una mongolfiera a spicchi panna e magenta immobile nel cielo cupo (copertina di un ipotetico album). Una sosta di un pomeriggio soltanto a Cadice, i cui stabilimenti balneari spogliati di tutto irradiano lo stesso un’energia, una radioattività, rimandano a decenni addietro, a euforie postbelliche, connubi cemento-sabbia che d’estate – come vederlo – funzionano ancora alla grande. Una lunga dormita in un albergo di pareti rosa a Conil de la Frontera. Un succo di frutta rancido nel frigobar. La donna biondo platino alla reception già con la mascherina e la sensazione di essere l’unico cliente da settimane, una premonizione collettiva. Nessuno in giro, nessuno – il vento, l’ira del mare e niente più. E poi ancora più nel profondo, verso l’Africa. L’attraversamento del parco naturale, le mucche, i cavalli bradi, le pale eoliche che ruotano all’impazzata. A cosa stai pensando? Tarifa, l’obiettivo. Il profilo nebuloso dell’altro continente oltre la processione di navi commerciali. Un mare a destra e un altro a sinistra. Il centro fitto di vie e di locali chiusi e di mille varianti di salmastro. Le spiagge sull’oceano, primordiali, esangui, sterminate. La furia delle acque spumeggianti e i surfisti punti neri che fanno capolino tra le onde. Le strade battute solo da saltuari camper targati Germania e Olanda. Essere sulla linea di confine, al limitare dell’ordine. Guardare ad ovest, dove il giorno finisce, da un bar con affaccio sul mare scosso da folate furibonde. Ordinare una birra. Una seconda. Avere un’idea grandiosa, realmente grandiosa, e poi smarrirla per sempre. […]

Hauntologie del bacino remiero

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Vivere è un’impossibilità collettiva
Climax

[…] È sabato sera, e questo è un lago. Potevo andare dappertutto, ma eccomi qui. Un uomo al cospetto di un lago: scena già vista, tipizzata dall’arte pittorica. Con la luna che sgocciola ossessiva sulle acque cioccolata fondente e i filamenti nervosi (chiamiamoli così) della vegetazione, sottili e assolutamente neri in controluce, che si piegano dalle rive a strapiombo. L’aria paralizzata, la soppressione di cause ed effetti. Nientemeno che uno stallo. Solo di tanto in tanto sfilano ombre indistinte, forse nutrie, anatre, svolazzi di pipistrelli. Solo di rado una stella nell’angolo in alto a destra del parabrezza, per millesimi di secondo, sembra pulsare più ansiosa delle altre. Tentativi fiacchi, in ogni caso. Non smuovono niente di niente.

La scoperta arriva dritta dal passato. C’è stato un tempo di corse da queste parti, mentre afosi pomeriggi sfumavano in stordite veglie di cicale. Un tempo, nell’omertà collettiva, già gonfio di dati, di educazione all’assenza, di scissioni. Le corse erano tenaci routine di muscoli giovani e fiato allenato che attraversavano i paesini dietro al Pinocchio e spesso deviavano verso l’argine pedonale del bacino, lo sterrato punteggiato di duri ceppi d’erba che percorrevo in tutta la sua ellitticità prima di far ritorno sulla strada maestra. Scovai la nicchia uno di quei giorni, per caso, scendendo dal terrapieno per una pisciata. Uno squarcio tra gli arbusti, dietro l’imporsi di un faggio guardiano, largo sei o sette passi a dir tanto. Una spiaggetta scoscesa che portava a un nugolo di cannucce di palude affioranti dalla battigia. Presi a sostarvi, ogni volta. Sempre più a lungo. Le natiche sudate sulla terra secca, il lettore mp3 zittito, contemplavo il lago – a sinistra la manipolazione umana, sulla destra, rasente l’Arno, un’anomia verde insaturo – e i variegati chilometri fino al Serra, sul lato opposto, e al sole che gli franava alle spalle in uno spasmo di tempera. Buttare via minuti, se non ore. Buttarli via. Procrastinare qualcosa. Mentre l’insinuazione saliva pian piano dal profondo ergendosi a pensiero lucido, una certezza mai affrontata: […]

Poi tutto è finito, senza motivo, asfissiato come mille cose – dalla frenesia, dai ginocchi rotti. Finché stasera lo spettro non ha impugnato il volante spingendo la macchina verso la meta perseguita. Opacità di una strategia svanita giusto l’attimo del lamento basso e dentellato del freno a mano, ben tirato – al riconoscimento posteriore di uno spazio, alla sua significazione. Sono uscito verso le venti, questo è appurato, l’ho deciso io. Ho spento il PC e pure la televisione di sottofondo, che parlava ancora delle tre vittime dell’[…] e infine, una decina di minuti dopo, miracoli del teletrasporto, mi sono ritrovato qui. Un uomo che guarda un lago, sì. Scena semplice su cui sto insistendo fin troppo, me ne rendo conto, eppure, evidentemente, con una vaga salienza – altrimenti sarei altrove. Un uomo e un lago. Una coscienza e la natura circostante. La natura che, se la mettiamo nei termini giusti, scruta se stessa. Fa parte del novero di quelle immagini, sapete. Che riecheggiano dentro inspiegate. Una volta il […] mi raccontò che non riusciva a levarsi di dosso la visione di qualcuno che, di notte, penetra nella casa dei suoi per ucciderli a coltellate, con lui che, adulto e ben messo fisicamente, osserva la scena impaurito da sotto il letto matrimoniale. Come pure l’[…], meno emotivo: un pallone aerostatico che si schianta da qualche parte nella campagna samminiatese. Un uomo e un lago, la mia. Meno cinematografica, con un preciso referente nel reale. Se non credessi che Jung fosse perlopiù un cialtrone lo tirerei in ballo adesso, magari a sproposito, per darmi un tono. Immagini radicate, intendo – calli sinaptici. Immagini attorno a cui per qualche ragione si organizzano romanzi, che mettono in moto ossidati processi essenziali e poi – se il romanzo comincia a camminare con le proprie gambe – vengono sotterrate dalle stratificazioni della narrazione. Un uomo, recluso nella macchina inclinata (questa è la novità), e un lago. Né mediazioni né diversivi. Forse, al contrario di quanto sostenuto da principio, elemento non così frequente nella storia dell’arte. Ma ormai è andata […]

Verso Paesante

Ristai.

Tra i sedimenti

il tempo ha dissepolto

drappi di stelle

da un ciglio azzannato

ci strega un biancore lunare

di clausinelle, un balenio,

talvolta, di tante lucine:

alto incombeva

su questi poggi dilavati

gonfio di guizzi

oscuro e ponderoso il mare.

Ora

un’arsa tabaccaia

una cascina disfatta

e sotto una coltre di ramaglia

qualche muro disperso

e tu di tra le rovine

mi dici ascolta

lo senti? Lo sento:

come sommerso

è questo il reame

tuttora inespugnato del silenzio.

Nuova Giuncheto A/R

Immagine di Cottombro Studio // https://www.pexels.com/it-it/@cottonbro/Afferra, apri, infila. Negli anni ha sviluppato una buona abilità manuale. E imparato a discriminare differenze insospettabili sulla qualità della carta messa a disposizione di volta in volta dai clienti. Quella che si piega senza difficoltà, quella rigida, quella impermeabile al sudore e alle piogge. Ci sono tipi di carta che paiono fatti apposta per trasformarsi in un tubo di semplice introduzione. Il grosso dei volantini lo tiene con la sinistra, tra pollice e indice, talvolta – quando esagera col carico – appoggiandoli al petto per non farli cadere. La destra è per le operazioni più complesse. La destra ne pesca uno e uno solo – si sono raccomandati –, spalanca la cassetta della posta col dorso e lo infila dentro con la sveltezza di una lingua di rana. Ficcalo bene dentro. Ficcalo almeno per ¾, che non cada ma che non ingolfi. Così prescrivono al corso di formazione per DtD classica, che dura un fine settimana e si tiene annualmente nella sala conferenze di qualche grosso Hilton nella periferia di Firemprato, laddove un tizio in cravatta e occhiali professionalizzanti, in una manciata di ore, colloca poche salienti nozioni nelle teste di un numero di inoccupati più o meno giovani. In quell’occasione – la Full Immersion – propongono un campionario di slide, video, consigli pratici. Forniscono mappe. Svelano i segreti delle cassette postali (hanno segreti). Insegnano tecniche tibetane di stretching. Sostengono che è bene sorridere e dare il buongiorno. Camminare svelti – ma senza affannarsi. Ficcarlo bene dentro. Farglielo inghiottire bene. Mai procedere a zig zag, è dilettantesco e inefficiente: prima un lato della strada e poi l’altro. Bene sempre organizzarsi la giornata la sera precedente dando un’occhiata alla mappa della zona assegnata e portarsi dietro uno zaino comodo (magari traspirante) ma capiente, che possa contenerne oltre il migliaio. Scarpe comode. Pantaloni comodi, larghi, che non irritino la pelle inguinale. Inoltre consigliano – tra un “capillare” e l’altro – di non dimenticare i fazzolettini di carta con cui asciugarsi le mani bagnate, un paio di snack energizzanti, una bottiglia d’acqua da ricaricare qua e là. Bevete molto, oltre il necessario. E scaricate dove potete. Prendono molto seriamente il problema. Ottimi i giardinetti e le stradine secondarie, dicono. Consigliato anche farsi amico qualche barista nei punti strategici che non faccia troppe storie se chiedete loro la chiave tre o quattro volte la settimana.

[Un giorno ha stabilito che camminare sarebbe stata la sua vita. Eppure c’è stato un passato nell’acqua. C’è stato un bambino che sguazzava settimana dopo settimana nell’immenso acquario accanto al porto di Pisa in mezzo a pesci variopinti e delfini e meduse depotenziate (comunque belle), sorvolando prati d’alghe e infinite ramificazioni coralline. L’infanzia nell’acqua salata. La maschera, la gomma dolce del boccaglio. I trampolini – lingue assetate. Gli squali che fanno paura anche se hanno dimensioni ridotte e si trovano nell’altra vasca, segregati oltre il vetro. È vero che sono ciechi? È vero che hanno sempre fame? Quel bambino era tutt’ossa e nuotava nella placenta sterminata con altri bambini, amici e non, nei fine settimana, con la sorella più grande e con i genitori, il padre dalla testa lucida e la madre con i fianchi larghi e il sorriso più bianco che ci sia.

Ormai non ci pensa quasi più. Ma qualche volta sì. ]

La massima espansione

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Fuori dal finestrino la Pianura Padana scappa via a mille all’ora e,
sai, dopo una vita, rieccomi qui
R. R.
 

1. Estate 1994

Dove siamo, fa Rossana dietro di me, senza pretendere una risposta. Sappiamo dove siamo, sappiamo cosa stiamo per fare. Sovrappone solo le parole al fischiettare degli uccelli, alla fisima delle cicale, le fronde frusciano, rametti secchi schioccano uno dopo l’altro sotto i piedi meccanici. La verità assoluta della voce, la nostra. L’efficacia di corpi irripetibili. È un pomeriggio di metà luglio e France, una spina dorsale di sudore affiorante sul retro della maglietta, tira il gruppo col suo passo dinoccolato. Conosce il posto. Ce lo ha descritto spesso giù in piazza davanti al Cantini, favoleggiandolo, rendendolo sacro, il punto preciso nel cuore della boscaglia in cui ha visto la luna piena di giorno e la luna piena gli ha sorriso e lui ha compreso l’universo intero. Ed eccoci lassù, dopo mezz’ora di salita. Seduti a gambe incrociate sull’erba senape al centro della radura, ancora calda del sole ora rimpiattato dietro i pini. Vertici di un triangolo rettangolo con un cateto lungo il doppio dell’altro – Rossana, di un paio d’anni più piccola, se ne sta un po’ in disparte. A che penso, nel momento in cui France scarta il fagotto di stagnola e lo fa scricchiolare in quel modo forte e definitivo, quando ci spiega per l’ennesima volta come funziona, cosa dobbiamo aspettarci? Al brutto Liceo appena concluso. Alle infinite possibilità che si spalancano spaventosamente davanti. Rossana armeggia nella borsetta parlottando tra sé e sé. Tira fuori il pacchetto, ne accende una e la fuma sbrigativamente, senza piacere. Le volute di fumo che le scappano dalla bocca si stemperano alla svelta nell’aria come scialbi spettri. Mi lancia un’occhiata, sia supplica che rimprovero, ma non so restituirle quel che cerca. Io sono tentato, lei no. La frattura è già insanabile. Quando abbassa la testa, nell’attesa del nuovo, dell’inevitabile, i suoi lunghi capelli neri – qualcosa della seta, sapete, di lenzuola di seta e mattine di maggio – scivolano in avanti fino a nasconderle per sempre la faccia.

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2. È tutto verde

Non gli alberi, ma la forma totale del bosco. Un abbraccio. E poi, sarà che ci penso da giorni, la Luna. Invischiata nella marmellata rossa, fragole, lamponi, sangue viscoso e denso di semini gialli, panini americani, America. New York è Allen e la camera sballo di Arnold e la copertina di un libretto delle elementari. Essere bambini. La Luna mica sorride come dice France ma uno starebbe ore e ore a guardarla. Da quanto la fissi, già? Non ti sei accorto che è verde? Che d’un tratto è tutto verde tranne il cielo? La fisso finché non sparisce nel nulla, o forse sono io che l’ho persa di vista – vedo ciò che credo, funziona davvero così da queste parti, amico? È tutto verde tranne il cielo. […]. Caldo. Madonna che caldo. Vorrei vomitare, un attimo, poi passa. Poi mi sento bene. Forte. Vispo in relazione all’ambiente. Che è verde, verdissimo. Sento un abbraccione di corteccia tiepido e ruvido. Un odore svelto di auto nuova, mamma e babbo davanti che cianciano nella nicchia fanciulla di una mattina festiva. Il cielo è ancora rosso e appiccicaticcio. Marmellata, non sangue. Da pappare di nascosto. I suoni a punta degli uccellini: zampette operaie lanciate in sequenze cicliche, Charlie Chaplin, l’Adelphi sulle formiche, la Cina spietata. Le cicale un muro vivo di mattoni verdi, gli alberi inconcepibili, esiste solo la Foresta che respira elefantiaca ed è tutto verde, verde, verde acceso, fosforescente, infuocato. Tranne il cielo. Tranne la seta dei suoi luminosi capelli neri. […]. Gli occhi vibrano, come i muscoli del corpo non più mio, i suoni forano la pelle e i colori solleticano oddio ma non rido. Non c’è niente da ridere. Vorrei solo dire qualcosa, amico. Vorrei dire come la penso sulla faccenda. Finché non voglio più. Perché è tutto verde e ora lo so davvero ora lo tocco e sono in pace e sono tutto, SONO TUTTO, sono la foresta e i granelli di terra nelle mani e le nuvole di ieri e il microscopico polline-polvere che vola nelle narici, ed è tutto verde tranne il cielo e – un frame, un’agnizione, una fitta – i suoi lunghi capelli di seta-vinile, neri, neri neri, disciolti sul viso ospitale di lui, sull’adolescenziale cenno di baffetti da strappare bruciare uccidere. E allora? Allora? L’ho sempre saputo e non fa niente. Non m’importa, serio. Non ha significato. Sono sdraiato e pulso, questo conta, su questo devo concentrarmi, un puntino pulsante di sangue al centro di ogni cosa viva. SONO OGNI COSA VIVA. […]. Bene bene. Quindi? Dov’è la Luna, ora? Il suo sorriso sicuro? Nessun abbraccio nei paraggi. Nessun appiglio. Mi viene da vomitare, ma passa, ancora e ancora, come ondeggiare disperato nell’ultima tempesta. Il pensiero è un’onda che va e viene. Che stavo pensando? Ho freddo, mille brividi sulla pelle zuppa. So che non si muore, d’un tratto, nell’acqua torbida dei miei occhi. So che non finirà mai.

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3. Inverno 2020

L’acufene – la sordità incipiente. L’insensibilità crescente di piedi e mani. Pelle arida, farina di cellule morte. La vista più povera. La prugna secca del cervello invischiata sempre negli stessi pensieri circolari, la penosa cocciutaggine dei vecchi ma non sono vecchio, non ancora. Sull’olfatto non ho niente da dire. Notte fonda, la città zitta, dormo poco, male – più la percezione deperisce e il reale si restringe e si allontana, più – paradossale – si dorme male. L’acufene esiste solo se ci pensi, dicono, è una sfida per la filosofia, e io ci penso. Ci penso di continuo. Sono sveglio. Sono l’essere umano più sveglio sul pianeta Terra. Accendo la luce, d’un tratto, nel gelo del monolocale, inforco gli occhiali e apro il cassetto. Lo faccio tutte le notti da quando è arrivata. La pesco al volo, senza dover frugare a lungo – sotto i fazzoletti di carta e l’agenda per appuntare idee che non vengono mai, o che deludono, sotto il cellulare. Sistemo il cuscino dietro la schiena, mi metto seduto. Il foglio è rettangolare. L’inchiostro è nero, le righe viola. Le parole sono rotonde e sempre stolidamente uguali – segni grafici che stanno per domande, precisazioni, astratte promesse. Resiste tenace il lieve odore di pesca matura emanato dalla carta – sull’olfatto, no, non ho davvero niente da dire. Conosco tutto a memoria eppure leggo e rileggo, espiro, poi rileggo ancora. Una specie di rituale. Non so perché lo faccio, perché ci ritorno, cosa voglio ottenere – avvizzire il significato con la meccanica dei gesti? Disarmare la nostalgia come meglio posso, smascherandone i seducenti meccanismi, decostruendola? Non lo so, davvero. Non ne ho la minima idea. So solo che non si può cambiare niente, mai. Il mondo è tutto ciò che è accaduto. La rimetto a posto, poi, schiaccio l’interruttore e affondo ancora tra le coperte nere, nell’illusione di un sonno veloce. E’ verissimo: l’acufene esiste solo se ci pensi.

Riecheggia ancora

2

Sadder still to watch it die
Than never to have known it
For you, the blind who once could see
The bell tolls for thee
NP

≪Racconta, sai, che ultimamente dorme poco. Si sveglia nel mezzo della notte, il mondo che si esprime solo frusciando o con remoti rintocchi metallici, e se ne rimane tra le lenzuola fino all’alba, gli occhi sbarrati, la vigilanza malata del consumatore di anfetamine. La mattina, poi, non riuscendo a combinare granché, cammina. Oh, se cammina. Percorre avanti e indietro l’argine dell’Egola (“le riv gosccc de l’Egolà”, scherza) e qualche volta tira dritto per La Serra o si inerpica verso Montebicchieri – il borgo fantasma omaggiato anni fa col fauvista Where’s the Werewolf? Chilometri e chilometri macinati col capo greve e le mani in tasca, i pantaloni di velluto beige da cui non si separa mai che strusciano sbrindellati per terra. E quell’idea, solo quella, fissa in testa. Come riacciuffarla quando l’hai perduta. Come resuscitarla quando è morta stecchita. Che strategie adottare, quali meccanismi mentali assecondare e se, non si sa bene come, possano svolgere un ruolo cruciale persino sottaciuti riti scaramantici – il carissimo amico Bertuccelli gli avrebbe spiegato per filo e per segno perché la superstizione attecchisce nelle menti degli umani e anche in che modo, con adeguati strumenti logico-statistici, la si possa sconfessare, negare, ridurre in polvere, ma il Bertuccelli non c’è più da un bel pezzo, volato giù nella valle in una notte delirante, ed è proprio da allora che – gatti e topi ballerini – il pensiero magico si fa largo sempre più prepotente nella sua testa semplice. Tuttavia, non equivocare: verissimo che si trova in condizioni pessime, che la grana scarseggia, che non sa che pesci prendere… ma lamentarsi gli piace poco. Non vuole teatralizzare. Le persone hanno affari ben più impellenti a cui badare, famiglie e bambini e bollette e carriere, ed evita di assillarle con petulanti frustrazioni da artistoide. La classica cosa che ti rode dentro, capisci? Notti insonni ma pure spaventose palpitazioni, emicranie lancinanti, un’ulcera che non si augura a nessuno… Assai restio e tutto quanto, sì sì, eppure quando ingolla un bicchiere di troppo il tema spunta fuori puntuale, un avvallamento abissale verso cui volente o nolente rotolano svelte tutte le parole. “Un casino spiegarsi” premette di solito. “Il linguaggio, alla fin fine, non serve proprio a un cazzo”. Abita dove sempre, nella sudicia soffitta in via di Giuncheto che da decenni è il suo laboratorio, la casa è il laboratorio e il laboratorio la vita, come nei film destrutturati che tanto imbarazzano gli alfieri delle prescrizioni narratologiche, quelli in cui si avverte una crescente patologica ibridazione tra il piano della realtà e quello, ineffabile, dei processi creativi. La soffitta è ampia, puzza di stantio ed è zeppa di centinaia di vecchie tele, ammucchiate sul cemento grezzo come spazzatura che non si ha voglia di portare in strada, si scorgono a malapena nella luce misera che scende farinosa dall’abbaino rivolto a nord, ritratti, paesaggi, un profilo stilizzato del Monte Serra colto da vicino, da un punto segreto tra Pontedera e Cascina, e poi pozze di pigmento secco, cavalletti abbattuti, stampe di Freud e Braque, pennelli, barattoli, bottiglie di birra. Decadenza, disperazione, resa – mille tentativi, altrettanti fallimenti. “Non sono più bono a una sega”, dice. Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando i suoi lavori venivano acclamati sulle riviste di settore e venduti sia in Italia che all’estero, facendogli incassare discrete quantità di quattrini. I premi, i vernissage, la televisione, i discorsi di ringraziamento in cui sbagliava regolarmente i nomi delle varie associazioni organizzatrici. Un periodo felice che, racconta lui stesso in uno dei suoi aneddoti preferiti, prese il via, per un paradosso morale degno di Dostoevskij o Donna Tartt, grazie a una trasgressione, al verificarsi di un singolo atto illegittimo: quand’era già quarantenne, un pomeriggio di maggio, sul regionale Firenze–Pisa, attirato perlopiù dall’astrusa promessa del titolo, rubò un libro alla studentessa che gli russava sul sedile di fianco e se lo portò a casa. La lettura attenta di Disegnare con la parte destra del cervello, testo rivoluzionario scritto da un’insegnante d’arte americana al termine degli anni ’70, assai influente all’interno della comunità internazionale dei Veri Pittori, ebbe su di lui un effetto piuttosto dirompente. Squadernandogli sia una nuova forma dell’esperienza del guardare che una nuova tecnica (le due cose, sappilo, vanno di pari passo), quel libro gli consentì di superare una profonda crisi artistica, equiparabile a quella attuale, che lo fiaccava da lungo tempo. (“La realtà, tutta assieme” ricorda. “I giorni pieni, spumeggianti, vivi”). Prese infatti a svegliarsi presto la mattina, d’un tratto, traboccante di energia, e a tenere in mano il pennello fino a notte inoltrata, indefesso, sette giorni su sette, per mesi, nonostante il mal di schiena e la cervicalgia, accantonando dall’oggi al domani tutto l’accessorio, il cibo, l’igiene, la compagnia degli amici. Adesso doveva solo dipingere, né più né meno. Adesso sapeva – fandonie che ci raccontiamo così tante volte che finiamo per crederci davvero – che dipingere era l’unica cosa che sapesse fare, ciò per cui l’avevano messo al mondo. E i dipinti che realizzava, devo proprio dirtelo?, devo?, i dipinti erano belli, coraggiosi e grondanti di significato. Piacevano a tutti. Tutti lo lodavano, lo blandivano, le interviste fioccavano, si moltiplicavano le richieste di lavori su commissione. Non poteva chiedere di più. Ma io, che c’ero già passato, gli feci capire che non sarebbe durato per sempre. Non dura mai per sempre. La spinta inebriante di quel vento portentoso prima o poi viene a mancare. Un giorno torna, luttuoso, l’orrore della bonaccia. Scompare la fiducia, un giorno, scompare la fede, quella vista speciale. Il reale di nuovo irriferibile – ogni pennellata inesatta, ogni tratto misero o, al contrario, atrocemente pretenzioso. E non puoi farci niente. Cerchi stimoli (inneschi) dappertutto e leggi romanzi, viaggi, richiami vecchie amanti, frequenti le mostre, il teatro, cammini meditabondo per ore e ore. Ma, per quanto ti impegni, ti arrovelli, la risposta non la trovi. Come si riavviano quegli ingranaggi mangiucchiati dalla ruggine? Come si rimette in moto il processo? “Non sono più bono a una sega”, ripete spesso. Non combina niente da così tanto tempo che si vergogna persino quando lo definiscono pittore. Scova sempre velature ironiche nel sostantivo, nel modo meschino in cui lo pronunciano. Replica, allora. Offende. Manda sonoramente a fanculo. “È solo un’ossessione” blatera da brillo rimasticando i bei tempi andati. “Una brutta ossessione del cazzo”. Qualcosa che ti tartassa emarginandoti dalla sana congrega dei normali e che poi, quando se ne va, “ti manca come ti mancherebbe l’aria. Oppure l’eroina”. Penso spesso a lui, sai, alla sua situazione. Penso al concetto posticcio di dovere – una costruzione sociale particolarmente perniciosa. Penso alla ricerca insistita, e disperata, del segno assoluto, quel segno che stia perfettamente per la verità più pura. Insomma, dai, qualcosa del genere. Credo dipenda da qualcosa del genere. E che sia anche, collateralmente, una mera questione di voler – o meno – dimostrare, a un pubblico senza faccia oppure a una persona specifica, di saper fare una differenza. Credo sia l’affermazione di un potere, la sua deprivazione. Credo sia voler dimenticare la morte. “Un casino farsi intendere”, dice alla fine dei suoi sproloqui sbronzi. “Soprattutto se chi ascolta è un buco di culo che non ha mai tenuto un pennello in mano”. Penso ai limiti insormontabili del linguaggio – cogliere proprio nell’esatto momento in cui si parla lo iato deprimente tra il pensato e il detto –, all’incomunicabilità fatale, alla metafisica delle nostre inestirpabili solitudini. “Non sono più bono a una sega”, biascica fino allo sfinimento, quasi a volersene convincere lui stesso, aderire esattamente alle parole e poi mollare tutto, magari, e cominciare una vita vera. Dorme poco, ultimamente. Davvero poco. Si sveglia nel mezzo della notte, il mondo che si esprime solo frusciando o con remoti rintocchi metallici, e se ne rimane a letto immobile fino all’alba≫.

L’immersione come gomma che cancella

La gioventù italia del Littorio (Dilvo Lotti)
La gioventù italiana del Littorio – opera di Dilvo Lotti (San Miniato, 27 giugno 1914 – San Miniato, 22 aprile 2009)

I denti sono trecce d’aglio pendenti dal soffitto cupo. Le arcate, disallineate per innati difetti gnatologici, si spalancano su di me, preda zoppa, bolo potenziale. Balbetto passi. Forme sfocate, tinte insature. Scippo al buio intermittente un braccio inchiodato al muro sulla destra. Un chiodo nel polso, come il Vigliacco, laddove un tempo sbocciava la mano ora latitante. Carne liscia. Carne lenitiva, sotterra traumi. Quattro sull’avambraccio e poi, oltre l’angolo pressappoco ortogonale del gomito, altri tre, forse più lunghi, ficcati in tricipiti e bicipiti dall’aspetto molliccio. Rivoli neri di sangue essiccato sulla pelle bianco yogurt attorno alle singole capocchie. Vedo una gamba, la destra, innaturalmente dritta e fornita di piede, ergersi come legno morto di palude in mezzo al corridoio, grottesca istallazione moderna – di fianco un’illeggibile didascalia. Incollata? Sostegno metallico interno? Calpesto l’elastica sofficità di milioni di peli e capelli sparsi sul pavimento di fredda pietra nuda. Avanzo. Carpisco. L’altro braccio a sinistra, imbullettato uguale. Guarda che muscoli. Paralleli graffi felini. La voglia a mezzaluna sull’ascella mozzata. Il pretenzioso tatuaggio del mio amore per lei. E quelli sarebbero muscoli. Le mani aperte, come i bambini quando contano, incorniciate e affisse una di qua e una di là – biunivocità dita-chiodi. Il tronco deprivato, capolavoro sospeso suinamente nell’aria che sa d’incenso o mele cotte, sorretto da catene massicce aggrappate alle scapole. I genitali flosci, desolati. Lo sfregio tra i bassorilievi vertebrali. La chiazza umida che s’allarga dabbasso col suo gocciolio ossessivo. Avanzo nella gola stretta, soffocante, urto un tavolo, l’altra gamba stesa sopra, sangue, la testa glabra, cieca, impossibilmente concava.

E tre recipienti di vetro.

Nel primo due globi oculari fluttuano inespressivi in una soluzione trasparente. Nel secondo, immoto a mezz’altezza il mio sopravvalutato muscolo cardiaco – vagamente spappolato, vinto, lembi filamentosi che si diramano nella formaldeide come tanti tentacolini rossicci. Nell’ultimo, abnorme, all’altra estremità del tavolo, niente tranne il liquido. È aperto, il tappo svitato accanto, e odora di forte e definitivo. Appena lo rischiara il miraggio di una luce lontana. Mi avvicino, allora, e faccio ciò che devo. Sono qui per questo. Sono qui semplicemente per questo.